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C’era due volte la DAD a Napoli. Una storia a nove voci

Illustrazione di Cristina Portolano ispirata al testo di Viola Sarnelli: "C'era due volte la DAD a Napoli"
Illustrazione di Cristina Portolano

Due chiusure totali, molti rimandi, un mese di scuola in totale da marzo 2020 a marzo 2021 in Campania. Nove donne residenti a Napoli raccontano la DAD, la didattica a distanza

Ancora più degli adulti, nell’ultimo anno bambini e ragazzi sono rimasti nelle case, invisibili. Una mancanza che colpiva a Napoli tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, mentre giravo con mio figlio tra i pochissimi spazi pubblici dedicati ai bambini, malmessi come sempre e stavolta anche mezzi vuoti. In una città in cui la scuola rimane per molti l’unico punto di accesso a socialità, confronto e emancipazione, che succede quando tutto questo finisce dietro uno schermo? Ho girato questa domanda ad amiche e conoscenti, e poi ai loro contatti. Inizialmente pensavo di intervistare madri e padri, poi un numero crescente di studi hanno confermato che ovunque il supporto ai figli in DAD è stato prestato in maggioranza dalle madri – quindi mi è sembrato giusto che parlassero loro. Così ho raccolto le storie di Lina, Anna, Alena, Silvia, Enrica, Sofia, Raffaella, Elena e Alessia (nomi di fantasia), donne con situazioni familiari e lavorative diverse che abitano in diversi quartieri di Napoli. Quando ho parlato con loro a telefono, tra gennaio e febbraio 2021, mi hanno aperto a voce le loro case, raccontato i cambiamenti in termini di vita quotidiana, pratici e emotivi, di lavoro e di cura osservati in questo anno senza scuola – aspettando la riapertura.  

La scuola a casa

La Scuola Nuova, in campo pedagogico, segue questi principi: l’allievo deve essere esposto all’insegnamento che gli si vuole impartire. L’esposizione … deve avvenire a casa dell’allievo, nell’ambiente che più gli è consono”.  (Lloyd Biggle Jr., La professoressa marziana, 1966)

Nell’ultimo anno le nostre case sono state invase da tempi e spazi di altre sfere che prima si riversavano soprattutto fuori: scuola, lavoro, socialità. Ho passato la prima metà del 2020 in un appartamento in un paese del nord Europa con il mio compagno e nostro figlio di tre anni, a lavorare a turno in una stanzetta trasformata in ufficio iniziando all’alba o finendo di notte per sopperire alla mancanza dell’asilo. Durante l’estate ho lasciato il lavoro e ci siamo trasferiti a Napoli, dove potevamo contare sul supporto della famiglia allargata. Nel nostro caso era soprattutto il mondo del lavoro che si riversava in casa. Per le famiglie con figli più grandi invece, il lavoro e la scuola hanno entrambi invaso lo spazio privato.

Nelle case della DAD lo spazio non è stato organizzato solo in base alle stanze disponibili, ma anche alla vicinanza al router wifi. “In cucina internet non prendeva, quindi dovevamo stare nel salotto io e i due ragazzi”, spiega Alena. I figli di Lina hanno sempre amato la cucina, ma ora il wifi debole gli dà un motivo in più per occuparla e di fatto bloccare tutta la casa. Anche per Raffaella e Sofia, di mattina, la casa è dedicata solo alla DAD, e per Anna che lavorava da casa come insegnante “tutta la casa era diventata scuola”. Chi ha potuto potenziare la connessione ha diviso meglio gli spazi, ma qualcuno sempre rimane escluso. “Abbiamo tre camere da letto, ognuno ha una stanza tutta per sé – solo io no”, dice Alessia.

Tutte sono portate a fare paragoni tra il primo e il secondo lockdown, prima e dopo l’estate 2020. Per Enrica “l’anno scorso è stato un uragano, quest’anno abbiamo preso il ritmo, ci siamo divisi meglio spazi e tempi”. Sottostare ai tempi della scuola a casa è stata invece per Silvia un’esperienza traumatica. “Marco è in una scuola privata che ha mantenuto sette lezioni giornaliere dalle 8.25 alle 3.15. Per non eccedere le quattro ore totali avevano collegamenti di 20-30 minuti e uno stacco dello stesso tempo tra una lezione e l’altra: tra i vari cambi di orario e inizio lezioni avevamo totalizzato 11 sveglie giornaliere”.

Fare scuola con le piattaforme

– “Su Marte c’erano degli ottimi professori.
– Naturalmente. Le colonie hanno una diversa concezione del problema dell’insegnamento”.
(La professoressa marziana)

Imparare attraverso lo schermo ha significato prima di tutto appropriarsi di nuovi strumenti. Molte bambine come Elisa, 7 anni, non avevano familiarità con tablet e computer, perché i genitori avevano preferito limitarne l’uso. “Non avrei mai immaginato – dice Anna – che diventassero così indispensabili”. La familiarità con gli strumenti è stato però solo il punto di partenza: sia per gli studenti che per i professori si è trattato di stabilire anche nuovi modi di interagire, nuove regole. “Nella scuola di Marco i bambini hanno avuto un codice di comportamento online”, spiega Silvia. “Sono mutati (silenziati, ndr) durante tutta la lezione, se vogliono parlare alzano la mano”. Per i più grandi, i nuovi codici sono spesso risultati da una negoziazione con i professori, che hanno magari rinunciato alla richiesta iniziale di accendere la web accendere la web (webcam, ndr), come racconta Elena. Anche il figlio di Lina “la telecamera la accende a volte sì a volte no: gli dà fastidio essere visibile tutto il tempo. Ora gli insegnanti hanno capito e chiedono solo il microfono aperto”. Pur avendo accettato strumenti e codici, il nuovo regime può comunque risultare impegnativo. “Valeria è una bambina molto studiosa e disciplinata eppure dopo tre ore di DAD è sfinita”, racconta Raffaella.

Gli insegnanti, dall’altra parte dello schermo, hanno dovuto reinventare anche metodi e contenuti. O almeno questa era l’aspettativa. “Per quello che sento, non si sono inventati niente per prendere l’attenzione del ragazzo, che pensa ai fatti suoi”, commenta Elena. Più in generale, nota Sofia, “Chi è stato attento ha avuto la possibilità di capire meglio i professori e le differenze tra chi è preparato, chi ci mette più cuore, chi lo fa tanto per fare, chi non ci sta tanto con la testa… Avendoli in casa ti rendi conto di tutte queste cose”. Nella maggior parte dei casi le madri hanno apprezzato lo sforzo fatto dalle insegnanti. “Hanno impiegato un po’ di tempo le maestre, ma si sono impegnate per intervallare la lezione classica”, dice Raffaella. “I bambini insegnano molte cose alle maestre e le maestre fanno affidamento su di loro”. In realtà, come racconta Anna, mantenere un metodo tradizionale non è stato necessariamente un limite: “con la maestra di Elisa ha comunque funzionato, perché lei è così spontanea e naturale, e in grado di spiegare le cose in maniera così accattivante, che i bambini la seguivano perfettamente”.

Un caso in cui la DAD non ha funzionato quasi mai è quello delle scuole dell’infanzia. Nell’asilo della figlia di Enrica le maestre si sono rifiutate di fare collegamenti. “Giada mi chiedeva, ‘mamma ma almeno una merenda su Zoom? Non glielo puoi chiedere?’. È stata brutta la mancanza di partecipazione emotiva delle maestre, con tutto che in presenza sono molto valide – non sono state all’altezza di questo passaggio. Mentre quelle delle elementari si sono immedesimate subito, non ci hanno lasciate sole neanche un giorno”.

Smart working

– I genitori sono tenuti a procurare gli apparecchi TV – spiegò Pargrin. – E devono controllare che i ragazzi siano presenti durante le ore di lezione, ma non sono tenuti a far sì che i figli seguano una determinata lezione. Altrimenti dovrebbero esercitare una sorveglianza assidua, minuto per minuto, cosa impossibile, come ha riconosciuto anche il tribunale”. (La professoressa marziana)

Lavorare da casa era fino a prima della pandemia una prospettiva allettante. Dall’anno scorso per molti genitori è diventato sinonimo di sentirsi schiacciati tra due tipi di prestazione, quella lavorativa e quella genitoriale, e riuscire male in entrambe. Con mio figlio non abbiamo avuto nessuna esperienza di DAD, si trattava ‘solo’ di giocare con lui in tutte le pause possibili tra una riunione e l’altra: il mio compagno gli comprava puzzle e costruzioni di difficoltà crescente, io cercavo di usare i ritagli di tempo e spazio mentale per fare pittura, biscotti e passeggiate al parco. Per chi ha seguito i figli nella didattica a distanza si è trattato di un compito ancora più impegnativo. In Italia lo hanno chiamato smart working, e in effetti presuppone una smartness e abilità fuori dal comune.

Per cominciare, ci sono i bambini che a settembre 2020 hanno iniziato la prima elementare: difficile lasciarli soli davanti allo schermo. “Praticamente andavo a scuola anche io insieme al più piccolo, e le altre mamme pure. Dicevamo ogni mattina ‘buongiorno!’, eravamo una bella classe”, racconta Alena. Ma anche da quelli di poco più grandi non ci si poteva aspettare miracoli, come spiega Silvia. “Una volta ho caricato in piattaforma un compito di Marco; il maestro ha risposto che andava rifatto. Visto che c’erano nel frattempo già scadenze di altre materie da caricare entro mezzanotte ho pensato che potesse aspettare un giorno – ma il maestro gli ha messo 0/100.  Al che ho risposto ‘se vuole dare questo voto a me come mamma va benissimo, ma se pensa che un bambino di seconda elementare da solo possa fare tutto questo…”.

La questione dell’autonomia dei bambini più piccoli, meno capaci di gestire da soli tutto il carico didattico e tecnico, è stato un tema ricorrente nelle conversazioni sulla DAD. C’è chi come Raffaella ha considerato una limitazione dell’autonomia come il male minore:  “l’autonomia è la cosa più sacrificata, ma devono essere per forza seguiti, altrimenti si perdono”. Altre sono state invece incoraggiate dalle maestre a fare diversamente. “Ci hanno chiesto che i bambini fossero collocati se possibile in uno spazio separato, incitando i genitori a non intervenire. All’inizio abbiamo dato a Mara le cuffie, ma le maestre hanno notato che era meno spontanea, forse preoccupata che le cadessero; quindi le abbiamo tolte ma chiudendo la porta. Senza cuffie era libera di muoversi e di parlare, nella sua camera”, dice Enrica. Anna è arrivata a una conclusione simile. “Elisa all’inizio non riusciva a interagire, e io cercavo di starle vicino. Poi mi sono resa conto che da sola riusciva a proporsi di più, quindi mi sono fatta da parte”.

Per grandi e piccoli, un supporto è comunque necessario, come racconta Elena. “Quando vado a lavoro ho paura che si possa riaddormentare, dato che si mette sul divano, con la coperta fino alla testa. Devo svegliare l’altro figlio oppure telefonare continuamente, per chiedere ‘stai sveglio, stai sveglio’? È un lavoro in più”. Sono pochi i casi, come quello di Enrica, in cui questo carico è stato equamente distribuito. “Fino all’estate 2020 ci siamo divisi la giornata: mio marito c’era tutte le mattine e io tutti i pomeriggi, lavorando esattamente la metà del tempo e recuperando il resto di notte. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare da casa entrambi – se uno dei due genitori avesse dovuto continuare fuori casa, l’altro poteva solo soccombere”. Silvia per esempio è stata in smart working dall’inizio, mentre il marito a volte doveva uscire. “Il problema è anche forse che io sono più organizzata, lui ha sempre un po’ la testa tra le nuvole. Un giorno avevo una seduta di laurea in cui dovevo per forza presenziare, e gli ho detto guarda fai tu attenzione perché io non mi posso proprio alzare, e si vede nel video se spalanco la bocca e urlo per dire a Marco ‘collegati!’. Ma non c’è stato niente da fare, dopo poco Marco è arrivato da me con il computer che gocciolava acqua perché gli era caduta durante la merenda. Lì per lì mi sono vista persa – niente computer significava niente scuola, niente lavoro, niente di niente”.

Disuguaglianze digitali e non

“…un altro fattore determinante per l’adozione dei nuovi sistemi di insegnamento è il risparmio di denaro che essi comportano. Anziché avere migliaia di costosi edifici scolastici, è sufficiente un unico studio TV”. (La professoressa marziana)

Il digital divide è diventato con la DAD un tema parecchio discusso anche in Italia. Secondo dati recenti (rapporto Svimez 2020) al Sud un terzo delle famiglie non aveva supporti informatici adeguati per la didattica a distanza. La mancanza di mezzi tecnologici non è sempre il problema principale o almeno non l’unico – tra i vari ingombranti elementi della divisione Nord-Sud rimangono la mancanza di spazi pubblici vivibili, e la più alta proporzione di famiglie con genitori disoccupati o in occupazione precaria, intanto cresciuta ulteriormente.

Rispetto a questi ed altri aspetti familiari e di contesto osservabili tutti i giorni, l’assenza di strumenti adeguati sembra forse meno rilevante. Ma di certo seguire le lezioni per un anno con il telefono, come hanno fatto i figli di Alena, Lina e molte altre, richiede una dose di motivazione aggiuntiva. Stesso discorso per chi come Elena aveva un abbonamento internet con cui “a volte saltava la connessione, bisognava aumentare i giga dei cellulari”. Alcuni hanno avuto un computer in comodato d’uso dalla scuola. A Elena è andata bene con un tablet nuovo, Lina invece l’anno scorso ha avuto dalla scuola un computer così vecchio che che alla fine la figlia ha continuato con il telefono. Situazioni personali ma di interesse collettivo, perché come osserva Enrica quando la connessione o lo schermo non funzionano “il disagio di uno può creare un’interferenza e una distrazione per tutti”.

A parte le disuguaglianze digitali, che c’è stato di diverso a Napoli? “I bambini non riescono a farsi una ragione del perché solo in Campania non si andava a scuola”, dice Anna. Da una parte le ordinanze del governatore della Regione che ha interpretato in maniera particolarmente restrittiva le direttive del governo; dall’altra gli allarmi maltempo del Comune e soprattutto lo sfascio di lungo corso di un sistema scolastico abbandonato all’iniziativa e alla resistenza degli insegnanti. “In Campania le cose già non andavano, con la pandemia è stata la croce sulla scuola”, riassume Elena. “Hanno speso tanto per cose inutili, si poteva investire in altro: se le classi sono piccole, prendiamo altri edifici e creiamo aule per i ragazzi”. Per non parlare di quello che sta in mezzo tra casa e scuola: i trasporti pubblici, cronicamente insufficienti e persino ridotti durante la pandemia. “Dicono che la scuola è sicura, ma per arrivarci i miei figli devono prendere mezzi sempre affollati”, dice Alena.

L’impressione è che ancora una volta in Campania, più che nel resto del paese, sia venuta a mancare quella fondamentale distinzione tra soluzioni di emergenza e continua emergenza come soluzione, come osserva Silvia. “Insegnante e genitore sono ruoli che si possono combinare solo in un’emergenza, se non c’è alternativa; non per evitare altri problemi, come è successo in Campania”.

Insieme a distanza? Come tornare a scuola

“- Ma così gli allievi non imparano a vivere con gli altri.
Stewart si strinse nelle spalle.
– Nella Nuova Scuola, d’altra parte, non esiste il problema della disciplina, […] non si presenta il problema del trasporto degli allievi … La cosa non vi persuade?”. (La professoressa marziana)

Ammetto che questo punto mi ha particolarmente coinvolto, perché ho vissuto in prima persona, dopo la fine del primo lockdown, la paura che mio figlio avesse dimenticato come stare insieme agli altri bambini. Dopo un paio di incontri dal vivo le cose sono migliorate, e a ottobre ha avuto la fortuna di potere ricominciare ad andare tutti i giorni all’asilo, almeno fino  a febbraio, quando abbiamo lasciato Napoli per trasferirci in un altro Nord. Ma, mi chiedevo, che sarà successo ai bambini che sono rimasti isolati per ben più a lungo?

In effetti diversi bambini e ragazzi in età da DAD, a differenza dei piccoli, sono riusciti a mantenere o creare qualche forma di rapporto a distanza con i loro coetanei. “All’inizio hanno avuto un rifiuto delle videochiamate, poi si sono abituate e con due amichette hanno passato pomeriggi interi insieme a distanza”, racconta Enrica. Raffaella riporta un’esperienza simile: “Valeria si sente soprattutto con un’amichetta, studiano con Skype acceso per ripetere, o si collegano anche se non studiano insieme, ma sapendo che ci sono l’una per l’altra”.

In altri casi i contatti a distanza sono stati percepiti dai genitori come un ulteriore elemento di alienazione. “Marco è riuscito a mantenere dei contatti, ma a che prezzo: dopo i collegamenti della scuola e i compiti altro tempo al computer e al tablet per giocare. Fino a marzo 2020 non sapeva neanche cosa fossero i giochi online, è sempre stato interessato alla natura, gli animali, il mare…”, racconta Silvia. Per i più grandi questa preoccupazione sembra anche più fondata. “Anche adesso che ricominciano a uscire, per tantissimi adolescenti l’istinto a chiudersi nella loro caverna con il fedele cellulare è ancora troppo forte. Diego la fase videogiochi l’ha quasi superata, ma Instagram e Youtube la fanno da padrone”, dice Alessia.

Il risultato per molte è preoccupante. Per Elena, “dopo un anno hanno tolto ai ragazzi la possibilità di fare cose, di imparare, di avere voglia di fare”. E gli effetti non sono sempre immediatamente visibili. “La piccola sembrava che avesse preso bene il primo lockdown” – racconta Raffaella – “poi c’è stata l’estate, in villeggiatura ha potuto frequentare altri bambini. E quando siamo ritornati a casa ha avuto una crisi, per giorni interi. Non mi ero resa conto di quanto avesse sofferto”. Oppure è stato proprio il ritorno a scuola a rendere evidente la differenza tra il prima e il dopo. “C’era una maggiore passività, ma me ne sono resa conto solo adesso che è tornata a scuola, perché è rinata”, osserva Enrica, “come se fosse stata ovattata per mesi”.

Come prepararsi quindi a tornare a scuola? Alcuni è come se non avessero mai smesso di andarci. “Vincenzo in genere fa colazione, si lava i denti, si sistema libro e quaderno e si collega. Lo prendiamo in giro io e la sorella, fai finta che vai a scuola? Ma ho capito che se non fa così il rientro a scuola sarà più duro”, dice Lina. Altri sono spaventati dal fatto che non riavranno “la scuola come era prima”, spiega Sofia: “oggi Davide diceva ‘mamma non sono d’accordo a tornare in classe, tanto non abbiamo più contatti con gli amici, alla pausa ci tengono tutti a distanza’”. Altri ancora sono invece già pronti, senza riserve. Come Enrica: “La riapertura ha portato per qualcuno problemi e agitazioni – ma non nostre, purché vadano in presenza va bene qualsiasi cosa!”.

Postscriptum

Il primo impulso della signorina Boltz fu di rimandarlo a casa con gli altri, poi si frenò pensando che gli sdolcinati insegnanti TV, i brillanti esponenti della Scuola Nuova, si sarebbero comportati esattamente in quel modo […]. «Che insegnante sarei se mi sgomentassi di fronte al primo ostacolo?» si chiese la signorina Boltz. (La professoressa marziana)

Ad aprile hanno riaperto in presenza le scuole medie di Napoli e provincia; a maggio si sono unite le superiori, a turni e spezzoni, con esperimenti di ‘didattica mista’ faticosi per tutti e basati su connessioni zoppicanti. Non sono mancati episodi di messa in quarantena arbitraria di classi, o la mancata riapertura di interi plessi scolastici giudicati non a norma. Il Comune ha messo in circolazione 40 autobus in più, ma rimane pressoché inalterato il trasporto su rotaia. In altre regioni si ricorre all’educazione all’aperto, ma per molte scuole di Napoli l’unico spazio all’aperto è il marciapiede davanti all’ingresso. Il sistema scuola campano continua a contare su iniziative stra-ordinarie quanto sporadiche, che non bastano a cambiare lo stato dei fatti. Bentornata scuola! Ma speriamo non “come era prima”.

Viola Sarnelli

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