Storie, approfondimenti e dialoghi plurilingue

Precious o il passo della cicogna

Illustrazione di Marta Delci ispirata al testo di Paola Piscitelli "Precious o il passo della cicogna"
Illustrazione di Marta Delci

L’orchidea sul balcone spande una bellezza gloriosa. Ha i petali carnosi spalancati su un gambo solo, pare in equilibrio pronta a spiccare il volo. Invece resta, sfacciata, a fissarmi dal basso in alto. Mi sfida a guardare più lontano di quest’incrocio di strade di provincia, normalmente a quest’ora prese dal via vai di mezzi e persone. Sotto i miei occhi, la città è muta, la sua solita vitale violenza stordita dalla pandemia, perduta chissà dove.

Nel silenzio, rivedo i carri armati di un’altra provincia più a nord scivolare dentro una notte tremenda e penso a chi ancora non ci crede. Non c’è stato un rito collettivo per salutare chi è scomparso all’improvviso.

Mi risuonano le parole di un importante consulente governativo per il NUSP, l’iniziativa per la riqualificazione degli slum in situ in Sud Africa, conosciuto la mia seconda volta nel paese. Ancora troppo poco per comprendere quanto di semplice e insieme complesso provava a comunicarmi sulla soglia del Kitchner’s, storico pub di Braamfontein a Johannesburg, mentre stentavo a tenere il passo dei whiskey e delle amarule ingollate per dar voce ai ricordi. “Sai, la cosa più dura dell’apartheid non sono stati tanto i soprusi, le torture, la clandestinità. Erano i compagni, gli amici, persino i conoscenti incrociati una volta che scomparivano all’improvviso, senza che tu potessi dire loro addio. E proprio questo ti faceva continuare a lottare”.

A quei tempi Mister Papi era ancora un ragazzo ma già un’attivista militante. C’era nella rivolta giovanile di Soweto nel 1976, quando migliaia di studenti e docenti neri uscirono dalle scuole diretti verso lo stadio di Orlando per protestare contro l’Afrikaans Medium Decree, il decreto governativo che imponeva alle scuole per neri di utilizzare l’afrikaans. L’inglese, la lingua più diffusa tra i neri e l’ultimo baluardo di libera espressione, veniva adombrato dalla lingua degli oppressori, inaccettabile ultimo atto del sistematico processo di oppressione, segregazione e alienazione perpetrato dall’apartheid.

Il corteo si organizzò pacificamente, le scritte sui cartelli dicevano “Non sparateci – non siamo armati” ma la polizia tentò ugualmente di disperderlo coi lacrimogeni. La folla recedette senza smettere di cantare slogan come “se noi dobbiamo imparare l’afrikaans, Vorster (il primo ministro, n.d.r.) deve imparare lo zulu” e la polizia aprì il fuoco uccidendo quattro bambini. Tra questi, Hector Pieterson, che avrebbe compiuto quattordici anni di lì a un paio di mesi.

La foto del suo corpo esanime in braccio a un coetaneo, con la sorellina disperata al fianco, scattata sotto le raffiche dei proiettili dal fotografo Sam Nzima, ha fatto il giro del mondo e avviato una catena di eventi sfociati, quindici anni dopo, nella caduta del regime dell’apartheid.

A più di due decenni di distanza, il simbolo della città in trasformazione è Constitution Hill, la collinetta sormontata dall’edificio della Corte costituzionale al posto dell’ex-fortino militare in cui gli antagonisti dell’apartheid venivano detenuti e torturati. I muri sono ricoperti di frasi nelle undici lingue ufficiali del Sud Africa, molte delle quali hanno lettere mancanti. Ai piedi della collina, Hillbrow, un tempo ‘whites only’ area, poi divenuta ‘grey’ e multirazziale, rappresenta il microcosmo di tutto quello che c’è di contraddittorio, affascinante e doloroso nella Johannesburg post-apartheid. Un intrico di violenza, sogni e disillusioni, sesso e malattie, mobilità e xenofobia, suicidio e vitalismo che riguarda soprattutto i più giovani. Non solo perché l’aspettativa di vita è bassa ma perché E-goli/Johannesburg continua a essere città dell’oro e di promesse e ad attrarre persone dai centri urbani o rurali dentro e fuori il Sud Africa. I giovani tra i quindici e i ventiquattro anni sono più di un terzo della popolazione, un immenso proletariato urbano non troppo dissimile da quello delle città europee di fine Ottocento.

La maggioranza demografica del Paese e del continente è la prima minoranza emarginata, intrappolata in quella che gli esperti chiamano waithood, eterna stagnazione fatta di disoccupazione, difficoltà a trovare mezzi di sussistenza e assenza di libertà civili. Una stagnazione pullulante di movimento e tentativi di risposta, però.
Come quelli di Mister Papi, che trenta chilometri più a Sud continua la sua lotta contro la segregazione gestendo un centro comunitario per donne e ragazzi affetti da HIV e AIDS a Kathlehong, seconda township nera della regione metropolitana.

Guardo l’orchidea e ripenso ai petali viola sul suo eterno berretto la prima volta che ci siamo incontrati, nel 2019, al Matrix, il bar dell’università. Era novembre, le jacarande piovevano purple rain per le strade, e noi già parlavamo di un’iniziativa per il successivo 16 giugno, giornata nazionale della gioventù in Sudafrica dall’uccisione di Hector Pieterse.

Pochi giorni dopo raggiunsi Mister Papi a Kathlehong, una spianata infinita di terra rossa e baracche e un bagno ogni quaranta abitanti, sui quattrocentomila che popolano l’area provenendo da Sud Africa, Zimbabwe, Botswana e Malawi. Ossia, una polveriera sempre pronta a esplodere, come succede con gli attacchi xenofobi che ciclicamente infiammano la città.

Così Mister Papi ha adattato il programma invernale della sua scuola: “Bisogna parlare dei due virus che non ci lasciano in pace: l’HIV e la xenofobia”. Lo fa ogni giorno nel suo centro comunitario e nelle scuole di Kathlehong. Non ha smesso di farlo neanche il giorno in cui mi organizzò l’incontro con gli studenti, per trovare i venti ragazzi che avrei voluto coinvolgere nel mio progetto sugli immaginari urbani della gioventù post-apartheid. Colloqui con classi di cinquanta studenti per volta: da una parte io, che parlavo di obiettivi, metodo, azioni, dall’altra lui, che li traduceva in motti poliglotti e battute, infilando tra gli uni e le altre l’invito a proteggersi nei rapporti sessuali e aprirsi in quelli sociali.

L’ultima immagine dal vivo che ho di lui lo ritrae di spalle, gigantesco nel suo metro e cinquanta, che dice ai ragazzi incuriositi dal mio aspetto “Stop watching her like an alien. Let’s find a way to tell each other stories”.[i] Quando l’onda lunga della pandemia di COVID-19 ha raggiunto il Sud Africa e il presidente Ramaphosa ha annunciato il lockdown nazionale, siamo rimasti bloccati ai nostri due poli, io con un volo non decollato, Mister Papi in uno slum tagliato fuori dal resto della città.

Codogno, Bergamo, poi il resto d’Italia, il decreto “Io resto a casa”, l’assurda politica dei congiunti. E i miei congiunti dall’altra parte del mondo? Le notizie dei giornali, dei social e degli amici a Johannesburg restituivano l’alternanza di allentamenti e rafforzamenti delle misure restrittive simile a quella del nostro paese ma intanto la faglia che divide la città si allargava. Da una parte, dietro muri, recinzioni e telecamere, depressi, appesantiti da una tristezza mal lenita dall’alcol ordinato su Amazon, ma al sicuro, i più fortunati o i più ricchi – appena un decimo della popolazione che detiene tre quarti della ricchezza locale. Dall’altra, gli abitanti delle township, i residenti degli insediamenti informali, la maggioranza demograficamente densa che sopravvive tramite la mobilità e gli scambi continui in una realtà in cui le persone sono la vera infrastruttura.

”You know that the township it’s not like a ghost town, dear”, mi scrive Mister Papi, e aggiunge: ”Things have changed, but not for the worst worst”.[ii] Quel ‘worst’ non ancora doppio, completo, inevitabile, mi sgomenta e ridimensiona.

Compaiono i primi articoli online che fanno il punto su ‘Why social distancing is a big challenge in many African countries’[iii] e Mister Papi, che da vent’anni si confronta con l’epidemia da HIV, mi chiede informazioni sulle misure per contenere il contagio da noi, mi domanda come funziona la vita di tutti i giorni, se anche qui ci sono scettici, negazionisti, complottisti. Proviamo a organizzare un workshop a distanza con i ragazzi per parlare non tanto di come l’Italia sta contrastando il virus ma di come ci sentiamo; dopo settimane di organizzazione, il giorno deputato, salta la connessione. Nel frattempo, a Kathlehong come negli altri slum della città, aumentano tra i ragazzi i casi di abbandono scolastico, violenze, incesti, gravidanze premature, abusi di sostanze.

Ripenso alla waithood degli studiosi e a quella vera dei ragazzi, mi viene automatico raffrontarla all’horror vacui attorno a me nella mia scaglia di mondo, alla fine degli elenchi d’incombenze che mandano in crisi la nostra vita quotidiana. Ci sono posti dove l’attesa ha tutt’altro peso.

Come si può qui, nel mondo ricco scopertosi improvvisamente nudo, malato, marcescente, abitare l’attesa, curare la lacerazione?

L’orchidea ha perso quasi tutti i suoi fiori quando ‘Love creates solutions’[iv], il motto della foto profilo di Mister Papi, spunta di nuovo sul mio display. Mi sta mandando il contatto di Precious, sedicenne dello Zimbabwe che ha salvato dagli attacchi xenofobi del 2018 in cui sono bruciati vivi molti stranieri nell’insediamento. ”Può servirti per il progetto e tu puoi aiutarla a uscire da qui, almeno con la testa”, scrive.

Segue un “Hi, Ma’m” di Precious e dopo poco il link alla canzone “Thula”. Guardo il video e provo a tradurne l’inizio dallo zulu: ”When the sun sets / it brings only pain / when the sun rises / it brings happiness and joy / Shush mama don’t cry”[v], dice più o meno in inglese.

Precious mi racconta che vive a Kathlehong con la madre e altri cinque parenti, tutti dipendenti dal suo stipendio di collaboratrice domestica, e che frequenta il decimo anno di scuola. Un piccolo miracolo per un’adolescente nera immigrata in una township, dal momento che si tratta del primo anno dello scaglione di scuola secondaria non obbligatoria che sceglie chi intende proseguire gli studi e magari un giorno fare l’università.

”Vivo ogni giorno nella paura perché non so cosa potrebbero fare i sudafricani se venissero a sapere che siamo dello Zim e non abbiamo i documenti per stare in Sud Africa. Perché essere giovani e stranieri a Johannesburg significa confrontarsi con una dura realtà, stare attenti a non far niente che ti metta nei guai, in attesa che arrivi l’opportunità giusta”, mi scrive Precious in un altro messaggio.

Cominciamo a scambiarci note vocali e foto. Io le mostro la stanza di ragazza nella casa dei miei dove sono rimasta bloccata, l’orizzonte di mare e il ricamo di isole in fondo ai palazzi dal balcone, le barche del porticciolo della mia città nei cui legni nascondo i pensieri tristi, quando evado di nascosto. Lei mi manda foto della sua baracca di mattoni coi quadri infilati tra i mobili raccattati in giro, le collanine di perline che intesse nel tempo libero per combattere la noia, messe in ordine sul piumone di farfalle blu.

I suoi messaggi mi raggiungono soprattutto il fine settimana e la sera, quando nel mio emisfero c’è ancora luce e nel suo il sole è tramontato. Mi scrive che il lockdown è difficile perché ”fatichiamo a trovare cibo, mia madre non lavora più e niente cambia. Mi sento sfiduciata, la scuola online non aiuta quelli come me, che non hanno soldi per il traffico telefonico e spesso non hanno neanche i cellulari. Prima, almeno a scuola, avevo l’impressione che potessi farcela, ora non lo so più”.

Io la sprono a non desistere pur sapendo bene quanto, soprattutto per le donne e i ragazzi neri che come lei vivono nelle zone più povere della città, stare a casa significhi isolamento, depressione e violenza, più che sicurezza.

C’è chi pronostica che la devastazione psicologica, emotiva e socio-economica prodotta nei ghetti e nelle zone rurali dal blocco e dall’interruzione dell’anno didattico porterà a un aumento delle gravidanze tra adolescenti e a livelli di abbandono scolastico per gli studenti meno avvantaggiati paragonabili a quelli degli anni successivi alla rivolta di Soweto, con l’esito di un’altra generazione sacrificata. Lo leggo nei report scientifici e intanto sollecito Precious a iniziare il libro che vuole scrivere sulla sua vita. Un’intuizione di risarcimento, non tanto perché ho le spalle più protette delle sue ma perché lei mi ha curata dalla tristezza, senza saperlo mi ha indicato come stare nella mia attesa.

A Ferragosto riusciamo finalmente a organizzare un workshop online tra Napoli, Milano e Johannesburg. C’è gente collegata dall’ospedale, alcuni entrano ed escono al ritmo dei cali di corrente elettrica. Precious non è in nessuno dei riquadri che mi riporta dove avrei dovuto essere.  Non la sento da giorni e sono preoccupata. Tra un mese avrò cominciato a cercare ragazzi come lei nella mia parte di mondo, in un’attesa più simile alla sua che alla mia, per continuare qui il progetto.

Quando il gruppo è quasi chiuso, Precious ricompare. La nuvoletta verde del cellulare dice: “È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che abbiamo parlato. Sto provando ad andare avanti. Ultimamente ho picchiato mia sorella per un piccolo errore, l’ho battuta così forte che l’altra mia sorella piangeva. Allora ho deciso di seguire il tuo consiglio di scrivere di me. Non so che ne farò ma mi sta aiutando a gestire la rabbia”.

La ringrazio e mi lancio nell’incauta promessa che un giorno ci incontreremo, che riflette il mio desiderio di toccare con mano se è vera questa specie di appartenenza senza luogo, di scoprire cosa mi ha tenuta per mesi legata ad un’adolescente dall’altra parte del mondo che vive una vita lontanissima dalla mia.

Penso ai due prigionieri che comunicano con colpi battuti nel muro dalle proprie celle contigue. “Il muro è ciò che li separa ma anche quel che permette loro di comunicare”, scriveva Simone Weil in La pesanteur et la grâce, titolo da riscoprire, quantomai attuale oggi.

Penso a noi, che abbiamo imparato a compensare la precarietà con la mobilità, e spostandoci, abbiamo cambiato non solo case e riferimenti ma idee e certezze, e ora ci sentiamo monche senza il resto del mondo vicino. L’angoscia provata con l’esperienza comune del confinamento ci chiama a calibrare con più forza e attenzione i nostri posizionamenti, ci chiede di praticare il pensiero come il passo delle cicogne. Dopotutto si dice sono loro che portano i nuovi nati.

[i]    ”Smettetela di guardarla come un’aliena e troviamo un modo di raccontarci le nostre storie”.

[ii]   ”Mia cara, sai che la township non è una città fantasma. Le cose sono cambiate, ma non ancora del tutto per il peggio”.

[iii]  “Perchè il distanziamento sociale è una grande sfida per molti paesi africani”.

[iv]   L’amore crea le soluzioni.

[v]   ”Quando il sole tramonta / porta solo dolore / quando il sole sorge / porta felicità e gioia / Shush mamma non piangere”.

GLOSSARIO

township: se in inglese la parola è genericamente riferita ad alcuni agglomerati urbani, in Sudafrica assume una accezione tanto precisa quanto dolorosa. Con essa si designavano quelle aree urbane limitrofe alle città nelle quali durante l’apartheid venivano segregati i cittadini non-bianchi, neri ed indiani. Famosa è la township di Soweto, il cui nome stesso nasce dall’espressione ‘Township di sud-ovest’ (SOuth WEst TOwnship).  Un’indicazione geografica per la concentrazione degli abitanti funzionali all’economia urbana ma indesiderati e, dunque, da controllare mediante il confinamento. Nel tempo, hanno assunto il significato più ampio di ‘parti di territorio’, definendo per esempio anche i distretti industriali ‘industrial township’, ma restano abitate in prevalenza da popolazioni economicamente, socialmente e politicamente marginalizzate.

purple rain: è la pioggia di fiori che cade nella primavera australe dalle jacarande, l’albero simbolo di Pretoria e Johannesburg. ‘Purple’ come il viola della fioritura delle migliaia di  alberi importati dal Brasile alla fine dell’Ottocento che decorano marciapiedi, strade e giardini donando uno spettacolo unico, che diviene pura nostalgia quando si è lontani dalla sua vista.

waithood: neologismo coniato dalla politologa Diane Singerman unendo ‘wait’ e ‘adulthood’. Si riferisce a quel periodo di stagnazione nella vita dei giovani laureati disoccupati in varie nazioni o regioni in via di sviluppo, specialmente in Medio Oriente, Africa e India. L’attesa diviene una sorta di adolescenza prolungata in cui gran parte dei giovani trascorrono i loro anni migliori aspettando. Mi occupo di osservarne le forme anche nei ‘nostri’ Sud.

Paola Piscitelli

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