Storie, approfondimenti e dialoghi plurilingue

Yadana

Illustrazione di Giulia Landonio ispirata al testo di Emma Ferulano "Yadana".
Illustrazione di Giulia Landonio

Yadana arriva nel nuovo paese come una principessa, avvolta in tessuti preziosi che nessuno aveva mai visto, portando la grazia, la bellezza e la dignità che raramente si trovano tutte insieme. Viene accolta nella nuova grande casa rosa da molte donne di tutte le età, alcune parlano a bassa voce, gesticolano, tanto non capisce niente, altre invece le urlano domande a raffica, così forse capisce qualcosa. Fanno festa intorno a lei, muovendosi nei loro abiti più modesti e ordinari, offrendole in dono una tavola imbandita preparata con dedizione da giorni, i migliori piatti della tradizione: pani intrecciati per la buona fortuna e per propiziare la fertilità, castelli di dolci sopra una distesa di petali e fiori. Gli uomini sono tutti seduti, mangiano, bevono, parlano veloci tra loro e ogni tanto la fissano in silenzio. Lei ricambia con grandi sorrisi incorniciati dai neri capelli lucidi in cui risaltano i suoi denti bianchi e assaggia con garbo quello che può essere preso con le mani e inghiottito in uno o due bocconi. Mangia con le mani con una eleganza tale che nessuno ha il coraggio di passarle una forchetta per la paura di interrompere qualcosa di molto solenne.

Ha una particolare propensione per involtini, polpettine, uova farcite, piccoli frutti freschi o canditi, sapori che non aveva mai provato e che ritroverà solo nei suoi ricordi.

Yadana è arrivata nel nuovo paese per un uomo giovane come lei, che non le parla e a stento la guarda negli occhi. Trascorre le giornate nella grande casa rosa in sua attesa. Quando ritorna, lo osserva con muta curiosità, i suoi gesti sono sempre gli stessi, si siede, mangia, beve, poi la guarda, la tocca, qualche volta le sorride, più spesso fa smorfie di dolore, poi si addormenta.

Al buio, immobile, senza rumori, Yadana si sente sola e qualche volta non riesce a respirare. Allora inizia a cantare sussurrando in una lingua misteriosa facendo affiorare la voce di sua madre.

“…e pecurella mia comme farraje
quanno ‘mmocca a lu lupo te truvarraje?
E pecurella mia comme faciste
quanno ‘mmocca a lu lupo te veriste?…”
[i]

Nella grande casa rosa, circondata dalle donne di tutte le età che al mattino le rivolgono solo sguardi distratti con voci dure, i vestiti scuri, i capelli raccolti, Yadana diventa Maia, che richiama il mese in cui è arrivata nel nuovo paese ed è più facile da pronunciare nella loro lingua.

Sono indaffarate in una miriade di lavori – chi si occupa di svuotare e poi ricaricare la stufa, chi lava i panni in una grossa vasca, chi pulisce, pavimenti vetri tappeti mobili pentole, chi cucina, chi sistema letti – con gesti precisi e collaudati che si incastrano uno dietro l’altro e non perdono tempo. Yadana, che ancora non si è abituata al suo nuovo nome, resta ferma a osservare, curiosa e radiosa, vicina alla anziana capostipite della famiglia, sempre seduta a sovrintendere le operazioni, vicina alle neonate fasciate e ferme tra i cuscini, vicina all’uscio della porta aperta che non osa varcare.

Passano le ore e i giorni in quella danza ciclica sempre uguale, che finisce solo quando tutto è sistemato, piegato, profumato, cucinato, pronto al rientro disordinato di uomini e bambini che corrono e riportano tutto com’era prima. Allora le donne si fermano e aspettano che la tormenta passi, per poi ricominciare il mattino dopo.

Quando varca la soglia insieme alle donne più giovani per andare a prendere l’acqua, può vedere il mondo che la circonda e le forme di vita fuori della casa. L’acqua esce con un debole fiotto da una fontanella attaccata a una tubatura che corre lungo la strada, tra i rifiuti e il cemento, in un punto non troppo lontano in cui si ritrovano tutte le donne della zona con i secchi in mano, due a testa, che riempiono lentamente del liquido che porta con sé riflessi ramati e odore di terra ammuffita. Mentre aspettano in fila il loro turno, Yadana si guarda intorno e vede le altre case dai colori sbiaditi, di lamiere di varie dimensioni, le strade dissestate, i grovigli di ferro e spazzatura, i residui di macchie verdi e i pochi alberi con i frutti che stentano a crescere.

Vede cani e maiali che razzolano nella terra, topi che attraversano baldanzosi pozzanghere e detriti. Vede macchine che sfrecciano sul ponte che sovrasta tutto, e il cielo nel quale si confondono nuvole e piccole colonne di fumo.

Vede un ragazzo, molto bello, seduto su una sedia sempre nello stesso angolo, che la fissa senza pudore e a cui lei rivolge un sorriso istintivamente.

Giorno dopo giorno, sorriso dopo sorriso, se ne accorgono le altre donne giovani e lo riferiscono alle anziane – “è un sorriso che attira come un magnete e spaventa come un’arma!”. Decidono di non riferirlo agli uomini, né giovani né anziani, ma decidono anche di non farla più uscire di casa per evitare di alimentare desideri e speranze.

È un sorriso che alla fine la costringe alla solitudine.Adesso può solo scrutare un piccolo squarcio di mondo dalle tende arancioni e blu della sua finestra, invisibile agli estranei e sorvegliata dagli sguardi femminili discreti della casa. L’esile melograno, il rosmarino, la menta e la lavanda che resistono in un residuo di terra, entrano con odore penetrante e sovrastano i cattivi pensieri, gli uccellini arrivano cantando all’alba, puntuali, se il vento lo consente, segnando il passo dei suoi risvegli, la luce cambia con il passare delle stagioni. A volte uno di loro riesce a entrare nella stanza e a posarsi un istante sullo specchio.

Dall’alba al tramonto, Yadana aspetta.

Non partecipa più al cerchio delle pulizie del mattino con le altre, non va più a prendere l’acqua, non rivolge più il suo sorriso né al ragazzo che ha ormai lasciato la sedia vuota né al giovane uomo di casa che ritorna tutte le sere da lei. Lo rivolge però a sé stessa, questo non può essere impedito, e lo può vedere riflesso nello specchio al vibrare delle sue memorie passate e ai momenti di bellezza presente.

Aspetta la notte per tirare fuori il suo tesoro segreto. Apre le tende e vede.

Vede tutte le altre donne aprire porte e finestre e riversarsi all’esterno della casa, nel silenzio, in silenzio. 

Vede la donna più lenta di tutte e dallo sguardo triste intonare un canto, sempre uguale:

“Io languirò d’angoscia,
inconsolabile t’aspetterò;
pregherò tutto il giorno,
la notte ti leggerò la fortuna;
penserò che avrai nostalgia
nella terra straniera…
Dormi, dormi finché non conosci
l’inquietudine.
Bájuški-bajú.”
[ii]

Vede la donna più vecchia di tutte piantare la vita in un giardino che spunta come un incantesimo, invisibile di giorno tranne che per le tracce di profumo che lascia;

vede la bambina più alta e goffa di tutte danzare per le strade come una fata in camicia da notte;

vede la ragazza più severa di tutte ridere come una matta, completamente nuda mentre si fuma una sigaretta;

vede quella più grigia di tutte dipingere su un enorme muro tutto quello che le sta intorno, e poi ricoprire tutto di bianco per non farlo scoprire al mattino;

vede quella più magra di tutte cucinare in una grossa pentola di rame una zuppa russa gialla e cremosa che ribolle sul fuoco a legna;

vede quella che parla peggio di tutte scrivere su un pesante taccuino che poi nasconde sotto una mattonella allo spuntare dei primi raggi del sole:

Cada madre agobiada ya descansará,
Y en nuestros brazos sus criaturas reposarán,
Cuando el sol se pone, sobre el campo,
Amor y música les brindaremos,
Y las madres cansadas ya descansarán…”
[iii]

Arriva l’alba.
Yadana richiude le tende, nasconde il suo tesoro, e si addormenta.
Il mattino dopo di lei non c’è più traccia, nemmeno l’ombra.
Al suo posto, al centro della stanza, una tela dipinta con colori preziosi che raffigurano le scene notturne illuminate da una luna importuna.
Tutte le donne si riconoscono in quei panni così diversi e si trovano così belle che iniziano a discutere nel dettaglio di tutte le immagini, talmente impegnate che non hanno il tempo di dare alcuna importanza al clamore degli uomini giovani, vecchi, bambini, che si agitano intorno.
Si siedono intorno alla tela e parlano per ore, giorni, secoli, senza pensare a nient’altro.

Postscriptum

Questa storia, un po’ surreale un po’ no, si ispira alle molte donne che ho incontrato durante anni di attraversamenti, relazioni e intrecci, a partire dalla mia famiglia fino a tutte le giovani e anziane provenienti da molti mondi con cui ho avuto la fortuna di condividere pensieri, sogni, visioni, pratiche, duro lavoro, tavola e cibo, parole e prospettive, vita privata e politica. Si ispira in particolare a quelle che non sono riuscite a fuggire con il corpo, a quelle con destini tragici e che non ci sono più, ma che – nutro questa speranza fondata pensando ai loro sguardi e volti – con la mente sono riuscite a fare moltissimi viaggi di liberazione. Si ispira ai percorsi di consapevolezza, duri faticosi gioiosi necessari, alla lotta per la sopravvivenza e per affermare la vita che ciascuna di noi ha attraversato in qualche fase dell’esistenza, andando oltre il proprio corpo e la propria mente, per superare gli isolamenti e le distanze forzate causate da malattie, violenze e oppressioni.
Io spesso ci immagino tutte insieme in cerchio, a raccontarci, ispirarci e anche divertirci.

[i]   Estratto da una ninna nanna popolare campana, ricordo ancora la voce di mia nonna vagamente inquietante quando me la cantava: “E pecorella mia come farai, quando in bocca al lupo ti troverai? E pecorella mia, come facesti quando in bocca al lupo ti ritrovasti?”.

[ii]  Estratto dalla Ninna nanna cosacca di Michail Jur’evič Lermontov. Il significato del verso “Bájuški-bajú” è l’equivalente dell’italiano “ninna nanna ninna o” messo a chiusura di ogni strofa.

[iii] Estratto dalla canzone Las madres cansadas di Joan Baez. “Ciascuna madre sfinita, riposerà / E tra le nostre braccia le sue creature riposeranno / Quando il sole tramonta sul campo / Offriremo loro amore e musica / E le madri stanche, riposeranno”.

Emma Ferulano

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